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Noi, loro, gli altri Gengè.

“Mi pende? A me? Il naso?”[1]

Succede così: ascoltiamo l’opinione di un amico e finiamo con il restare a bocca aperta. Udiamo quelle parole ed è come se un fascio di luce in arrivo da chi sa dove illuminasse d’improvviso un aspetto, un lato inosservato, un punto di vista che mai avremmo considerato. E allora la nostra visione del mondo è come se cambiasse un pochino, le nostre sicurezze vacillassero o, per lo meno, si aprissero nuove porte, nuove possibilità.

Come ci vedono gli altri? Chi siamo noi per loro?

E invece per noi, chi siamo per noi?

Si, perché non solo siamo una persona diversa a seconda degli occhi che ci guardano, dei parenti, dei conoscenti, degli sconosciuti che incontriamo al supermercato, e che, naturalmente, ci osservano.

Siamo una persona diversa anche per noi stessi.

Siamo una persona diversa quando chiacchieriamo con l’amico d’infanzia per cui crediamo di non avere segreti; siamo una persona diversa in famiglia, con la suocera; lo siamo con il capo in ufficio, con il passante che ci chiede istruzioni per una buona cantina.

“Due, dunque, non agli occhi loro, ma soltanto per me che mi sapevo per quei due uno e uno; il che per me non faceva un più ma un meno, perché voleva dire che ai loro occhi, io come io, non ero nessuno.”[2]

 

E, infine, diversi sono gli altri per noi. Chiunque è persone discordi, soggettività multiple.

Lo è il politico che promette il bene del paese e poi si macchia di falso in bilancio. Lo è il mafioso che predica l’onore e il rispetto, e poi, con al collo una croce, ordina l’omicidio di quel coraggioso che ancora rifiuta di pagare il pizzo. È a più parti il magistrato che, giurando, si lascia comprare; è multiplo il marito cosiddetto “per bene” che, ubriaco, massacra la moglie.

È molteplice l’uomo italiano, che chiude gli occhi di fronte al vicino che non paga le tasse, e poi s’indigna quando il giornale straniero lo chiama “evasore”; è multiplo quel devoto che frequenta ogni giorno la Chiesa, e poi fuori lascia il barbone morire di fame.

Uno, nessuno, centomila se stessi; uno, nessuno, centomila diversi.

Uomini difficili, contraddittori, ambigui, incomprensibili. Uomini che cambiano, che si smentiscono, uomini che talvolta non si riconoscono.

La grandezza di Pirandello sta proprio nel riuscire a descrivere il mondo, a sbirciarne la faccia scoperta.

La storia di quel Gengè Moscarda, che si guarda quel suo naso nello specchio, diventa così la storia dell’uomo che insistendo a specchiarsi negli altri diventa egli stesso lo specchio, gli altri.

C’è così il Gengè di Roma, quello di Stoccolma, quello di Berlino, quello di New York. C’è il Gengè somalo che combatte contro se stesso da più di vent’anni per il governo del proprio paese. C’è il Gengè razzista che sputa la sua rabbia sul “negro”, non accorgendosi di inveire contro il proprio, buio riflesso. C’è il Gengè birmano che ancora si lacera il corpo in parte buddista e un po’ mussulmano, diviso, indeciso sulla sua identità.

C’è il Gengè, l’uomo codardo, che chiudendo le orecchie si ostina a gridare, ingannato, la sua cagionevole verità.

“Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili. Non c’è.”[3]

Federica Musto


[1] L. Pirandello, Uno, Nessuno, Centomila, 1925.

[2] Ivi.

[3] Ivi.

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