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Una scuola che insegni a pensare

Una scuola che insegni a pensare

Cartolai in sold-out, librerie prese d’assalto. Tutti segni inequivocabili: ricomincia la scuola. Ma come ogni settembre, insieme a interrogazioni e compiti in classe, riprendono anche le polemiche. E quella di quest’anno riguarda il cuore della tradizione nostrana: il Liceo Classico.

Un’inchiesta pubblicata su L’Espresso, in edicola il 23 agosto scorso, riporta che nel 2013 solo sei ragazzi su cento abbiano scelto di confrontarsi con Latino e Greco.

Una percentuale esigua.

La tendenza sembra oggi orientata verso le materie più “concrete”, quegli insegnamenti immediatamente applicabili nel mondo del lavoro. Niente lingue morte, niente teoria “campata in aria”: la società richiede pratica. D’altra parte è innegabile che il solo diploma da liceo classico non “fa curriculum”, e che, con la crisi, sempre meno famiglie possono permettersi le rette universitarie.

Ma la verità è che, forse, si sta perdendo di vista il punto della situazione.

La scuola dell’obbligo è un’istituzione fondamentale della società civile. Certo, crea sbocchi lavorativi, asseconda, per quanto possibile, l’ambizione del singolo. Ma la sua vera essenza, il suo obiettivo, è educare. Nutre la personalità, fornisce le basi perché un ragazzo impari a distinguere autonomamente tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Insegna ai più giovani la virtus del proprio popolo, i suoi valori.

La scuola trasmette cultura. Non insegna un mestiere, insegna a pensare.

Forse allora il problema non è la scuola, ma la società. Non il professore che ancora spiega Cicerone e Tacito, ma il dirigente che non assume il neodiplomato perché “non ha già esperienza lavorativa”.

Pensiamoci. Almeno fintanto che la scuola ancora insegna a farlo.

Federica Musto

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