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La doppia faccia dell’abitare moderno: l’architettura di Le Corbusier

Abbiamo dovuto abituarci. A lavorare in smartworking, a stare in coda per poter fare la spesa, ad autocertificare ogni spostamento fuori casa. A fare gli addominali incastrati tra il tavolino del soggiorno e il televisore. Ci siamo abituati al bollettino delle diciotto, ai telegiornali monotematici, alla domenica senza partita gara gran premio e moto GP. In alcuni momenti ci siamo sentiti quasi soffocare dalla noia per un tempo lento, dilatato, un tempo troppo che stroppia perché non è mai stato così tanto e con così poco con cui poterlo riempire. 

Ma ciò di cui abbiamo sentito di più la mancanza sono state le relazioni sociali. Quelle vere, fisiche: un abbraccio, un sorriso, una stretta di mano. L’incontro con un essere umano che riconosciamo come simile e non come potenziale minaccia. 

Le relazioni sono importanti. E questo isolamento forzato che ha messo in pausa il corso naturale dei rapporti tra le persone, ha anche – paradossalmente – catturato l’attenzione di noi spettatori straniati, portandoci a riflettere sull’importanza di quanto davamo per scontato. Ci si abitua a tutto, ma non alla mancanza del contatto umano. 

Soggiorno di Villa Savoye, Le Corbusier Fonte: artribune.com
Soggiorno di Villa Savoye, Le Corbusier Fonte: artribune.com

E quando il compagno, la coinquilina, la famiglia o il pesce rosso con cui si divide l’appartamento diventano l’unica, imprescindibile compagnia possibile, si inizia a comprendere quanto sia fondamentale il sottile equilibrio tra lo spazio personale e quello collettivo anche all’interno della stessa abitazione. Abitare bene si scinde quindi in due facce che vanno a comporre la stessa medaglia: lo spazio necessario al singolo per esprimere se stesso, e lo spazio di condivisione sociale per coltivare le relazioni con gli altri. 

Due filoni che, intrecciandosi, hanno caratterizzato profondamente il lavoro di un grande architetto dell’epoca moderna, che durante il proprio percorso ha saputo costruire di volta in volta una forma nuova intorno all’esistenza in perpetua evoluzione dell’uomo contemporaneo: Le Corbusier.  

Le Corbusier in realtà non è un architetto, è un umanista. Parte dal mondo, lo osserva, ne ottiene una propria lettura e poi lo reinterpreta e lo riprogetta tramite una visione culturale complessiva molto più simile a quella dell’artista rispetto a quella del costruttore. “L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La costruzione è per tenere su: l’architettura è per commuovere”. Perché soggetto indiscusso di ogni architettura è la persona, con le proprie necessità e i propri progetti. Ogni edificio deve essere a misura d’uomo; e l’uomo, lo abbiamo visto, vive in bilico tra la realizzazione personale e interrelazione con la comunità.

Villa Savoye, Le Corbusier Fonte: artribune.com
Villa Savoye, Le Corbusier. Prospetto e sezione Fonte immagine: inexhibit.com

Dunque primo filone, la realizzazione personale. Sono frutto di questa ricerca tutte le ville residenziali realizzate per la ricca committenza francese tra gli anni ‘20 e ‘30 del novecento, prima tra tutte Ville Savoye a Poissy. Desideravo che le costruzioni beneficiassero di ciò che io chiamo “le gioie essenziali”, e cioè il sole e lo spazio e il verde. Una scatola bianca in calcestruzzo armato rialzata da terra tramite un complesso sistema di 25 pilotis che permettono a lei di galleggiare sul terreno e al paesaggio di scorrerle sotto. Un edificio fatto di luce ed aria, di facciate libere dall’incombenza del sostenere che si mostrano in un gioco di pieni e vuoti grazie alle finestre a nastro che le percorrono per l’intera lunghezza. Le esigenze strutturali sono soddisfatte dai pilastri che permettono una modularità estrema degli interni, i quali possono essere così gestiti a piacimento secondo le esigenze abitative.

Villa Savoye, Le Corbusier. Prospetto e sezione Fonte immagine: inexhibit.com
Villa Savoye, Le Corbusier. Prospetto e sezione Fonte immagine: inexhibit.com

Non è più l’uomo ad adattarsi agli spazi della casa, ma l’abitazione stessa ad essere cucita sulla misura dei propri abitanti, come fosse un vestito d’alta sartoria. Interno ed esterno si fondono dolcemente in un flusso di energia che sembra salire a vortice percorrendo tutta la casa, come un respiro che dal piano terra adibito a garage per le tre automobili – passione indiscussa della committenza, tanto indurre Le Corbusier a spiegare come fosse il raggio minimo di sterzata dell’automobile a definire le dimensioni stesse della casa – corre su per la rampa interna fino al piano nobile, costituito di stanze ed ambienti dalla linee semplici e leggere, e che si attorcigliano intorno a una terrazza centrale aperta, traendone luce, calore e nutrimento. E quindi ancora più in alto, per la rampa o per scala a chiocciola avvitata come un tronco d’ulivo nel cuore dell’abitazione, fino ad arrivare al tetto giardino. Ci si ritrova qui in un ambiente aperto che non solo rende l’elemento esterno parte integrante della struttura interna – guidando la natura a scorrere non solo sotto l’edificio, ma anche al di sopra di esso – ma diviene funzionale alla coibentazione del tetto tramite la termoregolazione naturale di erba e piante. 

Villa Savoye, scala a chiocciola Fonte: socialdesignmagazine.com
Villa Savoye, scala a chiocciola Fonte: socialdesignmagazine.com

Per Le Corbusier l’abitazione deve essere più di una casa: una vera macchina per abitare. E come ogni macchina deve compiere un lavoro – nel senso fisico del termine – e quindi generare forza, movimento. Questa idea di percorso, di corrente, è – a mio avviso – una delle chiavi di lettura dell’intera opera dell’architetto svizzero. Le Corbusier non si fissa mai sul singolo edificio, il suo lavoro è in continuo rinnovamento, in perpetua sperimentazione. Un laboratorio a cielo aperto in cui ogni costruzione è vista come un prototipo da cui trarre insegnamento. 

Quindi il secondo filone, l’interrelazione con la comunità. Se Ville Savoye è stata il modello sul quale studiare la possibilità di comporre residenze libere nello spazio; l’occasione di riflessione sull’abitare collettivo arriva dal bisogno di ricostruzione popolare del secondo dopoguerra, e in particolare dal progetto di riedificazione residenziale della città di Marsiglia e che il governo francese affida a Le Corbusier nel 1947. 

Unité d'habitation, Le Corbusier, 1947 - 52
Unité d’habitation, Facciata. Le Corbusier, 1947 – 52

L’abitare collettivo è per Le Corbusier un tema di grande riflessione che ha visto una gestazione ben più lunga dei soli tre anni che l’architetto impiega per la consegna della sua Unité d’habitation. Uno studio cominciato infatti già nel 1907, durante il primo viaggio in Toscana, grazie alla visita alla Certosa d’Ema. Qui Le Corbusier intuisce che la singola cellula abitativa del monaco, se concepita come frammento modulare di una sequenza potenzialmente infinita, può diventare l’elemento di base con cui assemblare l’unità d’abitazione collettiva. L’edificio di Marsiglia è un’architettura concepita come un quartiere verticale edificato sulle dimensioni e le necessità della comunità che lo abita. Diciotto piani sollevati da terra tramite imponenti pilastri in cemento armato per dare vita a una città galleggiante intessuta di 337 appartamenti, e servizi, e negozi, e strade pubbliche e un’enorme, accessibile terrazza con tanto di piscina e parco giochi per i bambini. Ogni ambiente è cucito su misura, secondo la scala proporzionale del Modulor teorizzata dall’architetto stesso, e che al pari di un uomo vitruviano dei giorni nostri modula i volumi di spazi ed arredi sulle dimensioni del corpo umano. Gli appartamenti sono diversi l’uno dall’altro per salvaguardare non solo l’individualità dei singoli abitanti, ma per adattarsi meglio alle loro esigenze; e sono associabili in duplex creando ambienti su due piani in cui la luce che entra da logge e soggiorni intesse un dialogo con l’esterno, con il sole l’aria e il paesaggio. 

Interno di un appartamento dell’Unité d'habitation di Marsiglia, riarredato secondo il disegno originale di Le Corbusier dall’architetto Philipp Mohr. Fonte: elledecor.com
Interno di un appartamento dell’Unité d’habitation di Marsiglia, riarredato secondo il disegno originale di Le Corbusier dall’architetto Philipp Mohr. Fonte: elledecor.com

Una macchina per abitare strutturalmente e funzionalmente molto complessa poiché completa di ogni servizio – aria condizionata compresa – e quindi indipendente. All’ottavo e al nono piano una strada pubblica su cui si affacciano negozi, servizi, spazi comuni. Una strada sulla quale il flusso energetico del respiro dell’edificio possa scorrere insieme alle persone. E poi su, ancora una volta fino al tetto giardino. Qui si erge le scuola materna, la palestra, un piccolo anfiteatro. Le Corbusier gioca con i volumi degli elementi che si compongono a lego creando una suggestiva scultura, inconfondibile e visibile da tutta Marsiglia. 

L’Unité d’habitation non è semplice architettura, ma un programma, un progetto con cui l’architetto risponde all’Europa della ricostruzione post bellica con una casa collettiva in cui la complessità della vita moderna possa trovare alloggio e prendere forma, diventando qualcosa di completamente nuovo grazie al rapporto biunivoco tra realizzazione personale e interrelazione con la comunità. Le due facce inscindibili della contemporaneità. 

Federica Musto

Amo l’arte in ogni sua forma, amo la bellezza e la curiosità che mi porta a scoprire sempre cose nuove.

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