Il gioco sottile del dettaglio: Portaluppi e Villa Necchi Campiglio
Come i bambini, quando vedono portarsi via il giocattolo che fino a quel momento hanno dato per scontato; e d’improvviso ne sentono una mancanza insopportabile. Così con la mia città. Chi mi conosce sa quanto io soffra i limiti agli spostamenti, non poter viaggiare, soddisfare la mia sete di orizzonti nuovi: spazio di respiro per lo sguardo, prurito di curiosità. Ma siamo in lockdown, il secondo.
E oggi ciò che mi manca fino a fare male è proprio la mia Milano, con i suoi palazzi, i suoi parchi, il suo flusso di persone stressate. Buffo, ma è stata la nebbia a risvegliare questa nostalgia. Una nebbia densa, liquida, dal profumo pregno d’autunno lombardo.
Mi mancano le passeggiate dei tempi dell’università, quando uscita da ore e ore di corso sentivo il bisogno di camminare la città. Occhi bene aperti, musica alta nelle orecchie, attenta a ogni profumo, colore, movimento. Stai pronta Federica, c’è talmente tanta bellezza al di là dell’arco del tuo passo.
È così che ho scoperto Portaluppi: infilando il naso in un buco nella siepe dopo tre ore infinite di Linguistica Generale. Piero Portaluppi, l’architetto che ha dato una fisionomia personale alla Milano degli anni Venti Trenta Quaranta e Cinquanta. Insomma, che ha dato il carattere alla Milano del ‘900 che amiamo oggi. Un giorno ho infilato il naso nella siepe e ho trovato dei fenicotteri. In centro a Milano. Era il giardino di Villa Necchi Campiglio e i fenicotteri erano i “vicini di casa” evasi da Villa Invernizzi.
Il ricordo fisico più forte della prima visita all’interno di Villa è il dolore lieve e piacevole che provano gli occhi quando vengono sorpresi dal sole al cambio repentino della luce. Come quello che si prova al risveglio, o all’uscita da una galleria in una giornata di sole. Ampie vetrate ariose dal taglio geometrico che aprono gli spazi di ambienti mai completamente definiti, come se ogni stanza della Villa fosse sempre potenzialmente fuggibile nella camera contigua tramite un ingegnoso ed elegante sistema di porte scorrevoli. E quei contrasti. Luci e ombre come pennellate a rifinire scorci, arredi, pareti. A creare movimento nell’aspetto stesso della casa in base all’ora del giorno. Eppure nulla è lasciato al caso, anche la luce è frutto di una cura al dettaglio estenuante, un pensiero – quello dell’architetto – che permea non solo le forme dell’edificio, ma i mobili, le piante, persino la decorazione delle posate e delle tazzine da caffè. Un gusto totale, partecipato dell’estro dell’architetto e delle forme espressive e caratteriali delle sorelle Necchi.
Avete presente quel sottile compiacimento che si prova quando gli altri ridono a una battuta che ci è riuscita particolarmente bene? Eccola. È quella la sensazione. È quella la soddisfazione che l’architetto doveva provare ad ogni progetto finito, ed è la stessa che si prova oggi a contemplare il suo operato. L’essere capiti. Il piacere tattile che si prova accarezzando gli ambienti con lo sguardo. Quella semplice, lineare bellezza mai forzata, eppure così curata, così ricercata fin nel suo più piccolo particolare. La vetrata del giardino d’inverno che taglia lo spigolo del palazzo aprendo gli interni ai piaceri del parco circostante. E siamo nel cuore della Milano degli anni Trenta, non nelle praterie di Frank Llyod Wright o nelle tenute nordamericane in cui è diventato celebre Mies van der Rohe. Una porta d’accesso del verde del giardino nel verde dell’edificio, della luce che nutre le piante e si specchia sulle lastre di pavimento di travertino intarsiato dal marmo verde scuro. La stessa pietra preziosa ricca di venature rosse e perlate che Portaluppi ha scelto per la scalinata d’accesso al suo Studio in via Della Rocca. Il tocco del suo estro declinato in ogni edifico, una simbiosi tra l’indole della committenza – abbiente, capricciosa, colta, funzionale, essenzialmente milanese – e la vena dell’architetto.
Ed è tutto lì, nel dettaglio. In quella rifinitura in ferro battuto che orna i vetri della parete cristallina di Villa Necchi, nell’intarsio degli arredi in legno, nei marmi scelti dei bagni, nel motivo geometrico che decora la scalinata d’ingresso e che viene ripreso nel servizio in porcellana Richard Ginori – disegnato anche questo instancabilmente, quasi maniacalmente da Portaluppi. Nei fenicotteri – evasi – liberi in giardino. Eppure nulla risulta forzato o straniante, nulla appare fuori posto, come se ogni oggetto, per quanto eccentrico, fosse essenzialmente e naturalmente parte indispensabile all’insieme. Il dover essere così delle cose, il non poter essere in nessun altro modo. Ecco cosa si respira in Villa Necchi Campiglio, come in ogni altro edificio firmato Portaluppi.
Tutta colpa di quell’amore profondo e beffardo per il dettaglio. Un gioco sottile. Le stelline sul Planetario Hoepli, il caleidoscopio marmoreo del pavimento nello Studio della Fondazione, le vetrate geometriche delle porte finestre di Casa Boschi di Stefano. Cavalcare le ossessioni dell’abitante e mallearle fino a renderle caratteristiche dell’edifico.
Genio, Portaluppi.