Passaporti di civiltà
«Oriana aveva delle nevrosi incomprensibili. Voi sapete che se si compone un testo in colonna capita che ci siano degli a capo che vanno di seguito. Gli a capo fanno tanti “meno”. Ecco, lei non sopportava tutti questi “meno”. Questo per dire che i grandi personaggi hanno anche grandi stranezze.»[1] Ci racconta Ferruccio de Bortoli parlando della stesura de La rabbia e l’orgoglio, articolo pubblicato dalla Fallaci sul Corriere della Sera in seguito all’attentato del 11 settembre 2001.[2]
Ogni giornalista ha le sue fobie e le sue fissazioni. La Fallaci detestava i “meno” che corredano l’andata a capo. Le davano l’impressione di un testo disorganizzato, incompleto, ancora abbozzato. E lei era una perfezionista, maniacale. «Tengo alla metrica, al ritmo della frase, alla cadenza della pagina, al suono delle parole. […] La forma mi preme quanto la sostanza. Penso che la forma sia un recipiente dentro il quale la sostanza si adagia come il vino dentro un bicchiere.» E questo perché scrivere è una cosa seria. Perché «le cose scritte possono fare un gran bene ma anche un gran male, guarire oppure uccidere»[3].
Quindi si, non una, non due, ma dieci, cento bozze se è il caso. Fino a che non prende corpo, fino a che non è perfetto: il pezzo.
Molti credono che giornalismo non sia altro che un sinonimo di effimero, semplice potenza della carta straccia di domani. Non è così. Quella che noi cataloghiamo come cronaca, quindi passeggera, fugace per definizione, non è che la prima risposta – a caldo – agli eventi. Ma dopo i primi due o tre giorni, quando gli animi sbolliscono, quando lo shock principia a calare, quella cronaca si trasforma. Diviene storia. Il giornalismo diventa pensiero, domanda, ricerca. Possibile formulazione di una qualche risposta. Ci aiuta a capire, ad accettare – laddove si può, laddove si riesce. Diventa un bene comune. Così i giornali si trasformano: da organi di informazione divengono <<passaporti di civiltà>>[4]. Ci aiutano a orientarci, a navigare in quel mare di informazioni che riceviamo di continuo, in quell’assordante rumore di fondo che rischia di farci perdere la capacità di distinguere ciò che è effimero da ciò che è essenziale, ciò che è legale da ciò che è illegale, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Il giornalismo non ci dà risposte certe, non ci dice cosa fare. Ci fornisce i mezzi, ci dà spunti, esprime opinioni. Perché no, talvolta sbaglia. E persino così è utile, perché sappiamo bene tutti come sia più facile riconoscere un errore quando è qualcun altro a commetterlo. Ci permette di considerare opzioni migliori.
Grazie ai giornali possiamo chiarire, verificare, approfondire. Avere a disposizione una voce capace di spiegarci cosa sta accadendo sotto la superficie confusa degli avvenimenti. Non affogare tra i cavalloni della iper-informazione oppressiva, vera nuova forma di silenzio coatto: la contemporanea censura del troppo. Perché il ruolo del giornalista non è quello del semplice riproduttore passivo di ciò che vede. C’è una responsabilità che va a unirsi alla semplice libertà di parola. La responsabilità derivante dall’essere ascoltati, letti, osservati. Dall’essere dei professionisti dell’informazione, di più: dell’opinione. Dal dover dare voce al diritto che la gente ha di sapere, di interessarsi, di capire – la politica, la società, l’economia, l’arte, gli eventi. Raccontare il mondo per creare discussione. Una responsabilità – e non solo un diritto – di parola.
Dunque si, i grandi giornalisti sono perfezionisti, nevrotici, maniacali. Perché ci tengono al loro ruolo, perché capiscono il perso del proprio mestiere.
Perché si, Oriana, hai ragione: scrivere è una cosa seria.
Federica Musto
[1] F. De Bortoli, lezione all’Università Statale di Milano, 25/11/2015.
[2] O. Fallaci, La rabbia e L’orgoglio, Corriere della Sera, 29 settembre 2001.
[3] O. Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli 2001, Milano, pp.18-19.
[4] F. De Bortoli, ibidem.