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Vaccinati contro il mondo

Talvolta ho l’impressione che alcune mostre d’arte abbiano ormai come unico scopo quello di fare cassa. Alcuni titoli, alcuni nomi sono come una garanzia di successo. Promessa di grandi numeri di visitatori, queste mostre si moltiplicano, si susseguono freneticamente, crescono in maniera esponenziale.

Il risultato? Tanta pubblicità, poco impegno e – il più delle volte – bassa qualità.

Facciamo un esempio: l’Impressionismo. L’impressionismo si propone, negli anni Novanta dell’Ottocento, come la grande rivoluzione dell’arte figurativa. L’uso del colore, l’attenzione per il disegno, la centralità del soujet: tutto viene stravolto, ogni cosa viene ribaltata e nuovi valori prendono vita. Ovviamente – come tutti i grandi cambiamenti che si rispettino – all’inizio il pubblico resta stranito. Ma l’aria di novità è forte, fresca e così, piano piano, comincia a penetrare anche nei polmoni dei più tradizionalisti. Pur se lentamente, ci si abitua al mutamento: è un tipico funzionamento dell’essere umano. D’altra parte siamo continuamente sottoposti a una così grande moltitudine di stimoli che se non selezionassimo a cosa prestare attenzione, ignorando il resto, ne saremmo alla fine schiacciati. Di conseguenza sviluppiamo una sorta di immunità, come un’anestesia perenne verso tutto ciò che, imperterrito, ci bombarda.

Ci vacciniamo contro il mondo, in un certo qual modo.

Ma quando una grande rivoluzione viene accettata, masticata e assorbita, smette di essere una grande rivoluzione. Diviene la norma, viene data per assodata, per scontata.

Vogliamo dirlo in maniera più garbata e conciliante? Diviene un “classico”, nell’accezione più scomoda del termine.

Per questo quando oggi leggiamo della “nuova mostra di Renoir” o della “grandiosa esposizione sull’Impressionismo”, ci limitiamo a prenderne atto. Compriamo il biglietto perché Monet è un “classico” e deve essere visto; ci incamminiamo per le sale, scrutando svogliatamente i quadri. Vaghiamo passivi in mezzo a quelli che noi stessi abbiamo trasformato in fantasmi, spettri di un’antica ribellione, ormai imbalsamati, snaturati.

E così sempre più numerose proliferano giudizi e polemiche. «Mostre senza anima», «esposizioni commerciali», «superficialità e scarso potenziale di interesse» i commenti degli esperti; nei fatti: fiumi di gente apatica che, il più delle volte senza alcuna traccia di spirito critico, paga l’ingresso.

Ma la verità è che il vero problema non è la mostra in sé. Il vero problema sta piuttosto nell’occhio dello spettatore, in quel mare di persone che, accidioso, accorre a fare visita. Il vero problema è che abbiamo perso la capacità di guardare il mondo con un po’ di curiosità, non siamo più in grado di vivere problematicamente l’arte, di farci domande.

Il vero problema è che dobbiamo re-imparare a stupirci.

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Perché è per questo che l’arte esiste, è per questo che l’arte ci affascina, da sempre. L’arte ha la meravigliosa, insostituibile capacità di costringerci a ragionare, di fare nascere in noi quesiti, interrogativi. Non che l’arte sia fatta per dare una risposta – il più delle volte non lo fa. Essa riesce, tuttavia, a generare domande, a risvegliare quella nostra naturale propensione alla scoperta, al “voler capire il mondo”, che al giorno d’oggi la vita frenetica e il grigiore della routine quotidiana ha finito con l’assopire. Ed è proprio questo, in effetti, quello che importa.

Dobbiamo re-imparare a stupirci poiché porci domande sull’arte crea un circolo virtuoso che finisce con il risvegliare la nostra curiosità su tutto. Voler capire, chiedersi il perché delle cose è un’attitudine fantastica, ma non solo: oserei dire fondamentale. Il voler capire l’andamento del mondo ci porta a rifiutare di accettare passivamente gli eventi che ci scivolano davanti. L’essere curiosi ci spinge ad impegnarci, ad interessarci, a partecipare. Il fare domande comporta la volontà e la capacità di scegliere.

E cos’altro è lo scegliere se non la più autentica e pura forma di libertà possibile?

Federica Musto

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