EXPO perché?
«[…] I monumenti pubblici incarnano valori condivisi.»[1]
EXPO Milano 2015, “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Queste le parole che da più di tre mesi accompagnano ogni viaggio in metropolitana, che compaiono su ogni giornale o rivista, che fanno capolino su ogni cartellone pubblicitario. Quella di Milano è la 34° Esposizione Universale riconosciuta dal BIE, l’organismo internazionale che sovrintende all’EXPO.
Ma cosa sono queste Esposizioni Universali? E, soprattutto, che obiettivi hanno?
La prima EXPO in assoluto è riconosciuta essere quella di Londra del 1851: la Great Exhibition of Works of Industry of All Nations. Per l’occasione il costruttore di serre Joseph Paxton (1801-65) realizzò lo stupefacente Crystal Palace, un edificio costruito completamente in ferro battuto e vetro, innalzato su una superficie totale di quasi 92.000 metri quadrati nel cuore di Hyden Park. Un’architettura grandiosa e nuovissima, non solo per i materiali utilizzati, ma per l’idea che vi stava dietro: un’enorme vetrina di merci, un luogo in cui tutte le nazioni potessero mostrare la propria produzione artistica ed industriale al grande pubblico, un edificio che, proprio per questo, si presenta come unione senza soluzione di continuità tra esterno ed interno, giocata proprio sull’illusione di “non misura” concretizzata dalle pareti trasparenti. Ad essere precisi, quello di Londra non è il primo evento di questo genere: già a partire da 1798 in Francia erano organizzate gradi esposizioni di merci che mettessero a confronto i progressi tecnici dei vari paesi; ma è con la manifestazione del 1851 che tali eventi divengono internazionali.
Il fenomeno delle esposizioni universali, quindi, dalla loro genesi fino a tutto il XIX secolo, vedono come capitali indiscusse e modelli in rivalità le due città di Londra e Parigi, tanto da far parlare di «monopolio londinese e parigino»[2]. Da subito molto amate da alcuni come possibilità di confronto e spunti di innovazione per le nazioni, e ancor più biasimate da altri poiché nulla di più di enormi centri commerciali o banali luoghi di divertimento; le Esposizioni Universali nascono più di un secolo fa con un intento che potremmo considerare attuale ancora oggi, nell’edizione di Milano 2015: essere «un coagulante politico, un’affermazione di principio, l’occasione di un rilancio economico, in ogni caso una gran festa che occulta ed esorcizza le tensioni sociali, o anche solo le difficoltà della vita quotidiana.»[3].
Per tutto l’Ottocento queste manifestazioni sono state il presupposto fondamentale per la diffusione delle arti applicate e un fantastico palcoscenico per la sperimentazione formale architettonica: libertà e audacia compositiva hanno accompagnato EXPO per tutto il secolo dell’Eclettismo, permettendo inoltre un percorso di ricerca insostituibile per la definizione di uno stile architettonico nazionale univoco.
Adattandosi di anno in anno, di edizione in edizione, alle peculiarità dell’epoca, dello stile e della geografia del paese ospitante, l’esposizione universale fu dapprima concentrata in un unico amplissimo edificio che la contenesse come un tempio o uno stupefacente museo d’innovazione. Successivamente, come nell’edizione celeberrima del 1889 a Parigi, i vari padiglioni vennero disseminati nello spazio urbano, offrendo la possibilità di realizzare interventi permanenti che modificassero il tessuto cittadino. Simbolo di tale esposizione, rimasto ancor oggi emblema della capitale francese, è la formidabile Tour Eiffel, iniziata nel 1887 e ultimata in soli 24 mesi. Inizialmente criticata dal popolo parigino a causa della struttura interamente in ferro battuto, considerata avanguardistica ed esteticamente poco piacevole, è successivamente stata rivalutata, divenendo oggi uno degli edifici francesi più amati al mondo. E dire che sarebbe stata distrutta, come d’altro canto tutte le costruzioni realizzate per le esposizioni universali, se non fosse stato per il suo costruttore, l’ingegnere Gustave Alexandre Eiffel (1832-1923), che le trovò un utilizzo scientifico come strumento per i proprio esperimenti di aerodinamica spaziale.
Il modello utilizzato oggi per le Esposizioni Universali, è tuttavia quello inaugurato a Chicago nel 1893, ossia una struttura a padiglioni in un complesso a satellite, realizzato in una zona vicina ma autonoma rispetto alla città e ben collegata ad essa, come mostrò la World’s Columbian Exposition in Jackson Park, a pochi chilometri dalla “windy city”.
Talvolta colonialistiche, talvolta sfruttate politicamente e propagandisticamente, talvolta addirittura utilizzate come esempio tangibile delle tensioni nazionali tra i paesi partecipanti – come mostrato dalla Exposition Internationale des Art set des Techniques dans le Vie Moderne del 1937, in cui lo scontro ideologico tra la Russia stalinista e la Germania nazista venne metaforicamente rappresentato ponendo i due padiglioni ai poli opposti dell’asse centrale del complesso espositivo -, le Esposizioni Universali non hanno tuttavia mai cessato di parlare ai propri visitatori.
Dopo la seconda guerra mondiale l’architettura – che da sempre aveva trovato nell’EXPO un’occasione di sperimentazione e possibilità evolutiva – assunse ruoli sempre più decisi, passando dall’essere sede di esposizione, a esporre se stessa. Padiglioni sempre più spettacolari e fantasmagorici; forme sempre meno tradizionali e consuete; complice l’evoluzione tecnologica capace di compiere veri miracoli in campo architettonico.
Insomma, la parola d’ordine? Stupire.
Ma la domanda qui sorge spontanea. Oggi, in un 2015 in cui la tecnologia informatica è così avanzata da rendere ormai obsoleta la “cara vecchia televisione”; in un 2015 in cui l’informazione è talmente veloce, in cui l’occhio di Internet è talmente addentrato nella vita quotidiana da rendere problematico anche il relativamente nuovo concetto di Privacy; in un 2015 in cui anche una mostra artistica di qualsiasi genere è già vista e stravista tramite i media visivi e la pubblicità ancor prima che sia tagliato il nastro di inaugurazione; mi chiedo: in questo 2015 ha ancora senso parlare di “stupire il visitatore”?
Nell’Ottocento per un uomo comune andare ad un’esposizione universale voleva dire accedere a qualche cosa di mai visto prima, di assolutamente impensabile, inimmaginabile. Venire a contatto con culture, forme, persone diverse, lontane, esotiche. Non a caso le esposizioni dell’’800 sono state un veicolo fondamentale per la diffusione dell’esotismo nell’immaginario comune. Hanno ufficializzato l’incontro tra Oriente e Occidente. L’EXPO parigina del 1889 permise, per esempio, a Gauguin di staccarsi dalla sua prima fase impressionista per divenire il pittore esotico e primitivista che conosciamo oggi. Durante la manifestazione, grande influenza esercitarono su di lui le ricostruzioni in scala naturale di diversi edifici – come il Tempio di Giava e il padiglione cambogiano, contenente dei calchi in gesso delle devatas di Angkor Wat – da cui Gauguin prese pose e gestualità da utilizzare nei propri dipinti.
È interessante notare come nell’Esposizione dell’’89 fossero proprio gli interi edifici a venire ricostruiti: la volontà era quella di restituire un campionario di vita, completo di usi ed abitudini, ospitando anche indigeni e popolazioni autoctone che ogni giorno dessero luogo a balletti e rituali tipici della propria cultura. Tutto questo suscitava nel visitatore parigino sostanzialmente due reazioni possibili: da un lato il compiacimento per la presunta superiorità della metropoli sull’indigeno; dall’altro una melanconica nostalgia per un mondo lontano e genuino, un’evocazione pittoresca che sarà alla base della forte malattia orientalista.
Stesso discorso vale per Matisse, che in Occasione dell’Exposition Universelle del 1900 scoprì i paesi orientali visitando i padiglioni di Turchia, Persia, Tunisia, Egitto e Marocco, scoprendo i caldi colori orientali e ponendo così le fondamenta per quelle che poi sarebbero diventate le sue Odalische.
Oggi però è tutto diverso. Andare ad un’esposizione universale non significa per noi visitatori scoprire una nuova cultura, accedere a forme e colori mai visti in precedenza; significa piuttosto verificare che ciò che abbiamo già visto in diversi servizi televisivi, o sullo schermo del nostro computer, sia effettivamente così come ce lo saremmo aspettati dal vero. Significa “toccare con mano” quell’immagine che già i media visivi ci avevano portato a conoscere.
È per questo motivo che non credo che abbia più senso parlare di stupore. Si può parlare di interesse, di esperienza, di curiosità, ma non di stupore.
Che questo sia un “di meno”, una nota negativa? Non credo. Io lo chiamerei solo conseguenza della contemporaneità.
In ogni caso credo proprio che l’edizione milanese valga una visita. Tutti all’EXPO: c’è tempo fino al 31 ottobre!
Federica Musto
[1] Saggio pubblicato in Alan Sonsfit, Purchase, N.Y., Neuberger Museum, 1978, presentato al Metropolitan Museum of Art di New York.
[2] Cit. di Luca Massidda.
[3] A.A.V.V., Le grandi esposizioni in Italia 1861-1911. La competizione culturale con l’Europoa e la ricerca dello stile nazionale, Napoli 1988, p.9.