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Anti-monumento alla memoria

Anti-monumento alla memoria

«La cosa più strana nei monumenti è che non si notano affatto. Nulla al mondo è più invisibile. Non c’è dubbio tuttavia che essi sono fatti per essere visti, anzi, per attirare l’attenzione; ma nello stesso tempo hanno qualcosa che li rende, per così dire, impermeabili, e l’attenzione vi scorre sopra come le gocce d’acqua su un indumento impregnato d’olio, senza arrestarvisi un istante».[1]

Christo and Jeanne-Claude Wrapped Trees, Fondation Beyeler and Berower Park, Riehen, Switzerland, 1997-98. Photo: Wolfgang Volz © 1998 Christo.

Platone paragona l’anima a un blocco di cera su cui inscriviamo i nostri ricordi. Questo ci permette la memoria e, secondo il filosofo, la conoscenza.

In effetti per ricordarci i temi trattati durante una lezione o una conferenza prendiamo appunti; quando riceviamo una telefonata “annotiamo il messaggio”. Per non parlare poi della disperazione che ci prende nel momento in cui, arrivati al supermercato, ci accorgiamo di aver dimenticato la lista della spesa attaccata al frigo.

Scrittura, medium, strumento. È un po’ come se la storia della memoria non fosse altro che una lunga incisione su un supporto. Un espediente per non dimenticare.

Da qui il paradosso. Jaques Deridda nel suo La Pharmacie de Platon (1968), parla dello strumento come pharmakon, anestetico. Nel momento in cui annotiamo qualcosa, affidiamo il ricordo a un dispositivo esterno. Ce ne liberiamo, ne commissioniamo il peso. Ci è dunque permesso di dimenticare.

Ecco perché i monumenti acquisiscono la caratteristica della semi-invisibilità. Il monumento è la nota per eccellenza, lo stereotipo dell’appunto. Un monumento è fatto per essere ipervisibile: il suo compito è quello di essere segno materiale, di rammentare a una certa comunità un evento, un fatto importante. Ma nel momento in cui la comunità affida la memoria a una grande statua posta al centro di una piazza, si sente come autorizzata a passare oltre, a pensare ad altro. E la statua diventa, nel migliore dei casi, una lettiera per piccioni.

A questo punto come dare una scossa, risvegliare il ricordo?

Nasce l’anti-monumento.

“Condivido il timore che, allontanandoci da fatti che ormai crediamo di conoscere, presto li daremo per scontati”[2] dice Maurizio Cattelan. Da qui la creazione di opere, le sue, che non celebrano, ma discutono le tragedie della storia. Laddove il monumento commemora, Cattelan istiga, attualizza. Non più un appunto che riporti alla mente, ma un quesito che faccia problema. “Ogni opera che suona provocatoria alle orecchie di alcuni può essere drammatica e riflessiva per altri, basta rimanere in ascolto più a lungo.”[3]

Maurizio Cattelan, L.O.V.E., 2010

E così non facciamo altro che continuare a chiedercelo: quel dito medio in Piazza Affari[4], a chi sarà rivolto?

 Federica Musto


[1] Robert Musil, Monumenti, in Pagine postume pubblicate in vita, 1936.

[2] Maurizio Cattelan, in Con la forza dell’ironia, J. Blanchaert, Art&Dossier n°303, ottobre 2013.

[3] Ibidem

[4] Maurizio Cattelan, L.O.V.E., Milano 2010

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